Diciamolo subito: a me il cinema italiano fa abbastanza cagare.
Ecco, ci siamo tolti il dente.
Ecco, ci siamo tolti il dente.
Mi fa cagare perché non mi ci riconosco. Quando va bene è noioso e artificioso; quando va male è un insieme di cliché per imbecilli. E mi fa cagare perché mi sono preso la briga, giovine come sono, di farmi una "sparata in vena" di opere di registi come Fellini, Rossellini, Visconti, De Sica, Bertolucci, Pasolini, Petri, compreso il cinema di genere (che in parte oggi si sta rivalutando) di gente del calibro di Monicelli, Bava, Corbucci, Ferreri, ecc. Ecco, quel cinema la era grandioso: aveva idee e aveva storie che voleva raccontare, che sentiva di dover raccontare. Il cinema italiano di oggi mi fa cagare perché, guardando quei grandi film, ti chiedi com'è possibile che un tempo sapevamo fare quello e ora siamo sprofondati nel degrado. Gente, non voglio scadere nella nostalgia da grognard, ma è una cosa che sento di dover dire. Per me il cinema italiano di oggi ha dei grandi problemi, principalmente tre.
Il primo problema del cinema italiano di oggi è che proprio non sa raccontare storie senza sembrare artefatto, retorico, forzato. Siamo stati abituati a film dedicati a un target che proprio non si sa dove stia: storie piene di borghesi benestanti in crisi di coppia dove urlano tutti; commedie dove tutti sono ricchi e felici e si ride per le scoregge; racconti di papi, santi o timorati di Dio che sia mai che non lecchiamo il culo alla chiesa. Quando ti va bene, e becchi il regista sinistroide finto impegnato, ecco il film con gente che sventola bandiere comuniste manco fossimo a Mosca durante una sfilata di Stalin. Eravamo convinti che il cinema italiano fosse quella roba la, fuori dal tempo, scollata con la realtà che viviamo; un cinema di storie ambientate in un'Italia che non esiste, la stessa Italia dei salotti televisivi, di Canale 5, di Amici; un cinema di storie raccontate male, che i messaggi te li urlano in faccia e, caso mai non avessi capito, te li scrivono pure in sottotitolo. "Ragazzi, le droghe fanno male, non usatele", come recitava Stanis in una delle puntate della prima, bellissima stagione di Boris.
Il secondo problema del cinema italiano di oggi è che va avanti a forza di clientelismo, favoretti e nepotismo. Le case di produzione si contano sulla punta delle dita, i film vengono costruiti attorno ad attori famosi che recitano peggio d'un cane ubriaco, il grosso dei fondi viene da bandi di regione e quindi passa attraverso un sistema trasparente come un fondo di caffè. Non c'è la possibilità di portare avanti una poetica personale; i pochi grandi nomi, quelli che contano, puntano sul riscontro facile e rimangono incollati a un modo di raccontare storie che non deve dare fastidio a nessuno. Politically correct made in Italy. I film indipendenti e di genere, spesso opere che scalciano cooli, vengono distribuiti in tre sale, e magari vengono visti solo dagli amici del regista.
Il terzo problema del cinema italiano di oggi è il pubblico. Lo spettatore medio è assuefatto a due tipi di retorica: da una parte quella di cui si è parlato poco sopra, dall'altra quella del cinema americano, tutto BOOM BOOM BANG yippee ki-yay motherfucker e budget da capogiro. Un cinema che spesso e volentieri si fa i pompini da solo. Quando qualche regista o produttore "de noantri" prova a fare qualcosa di diverso dal solito film italiano, magari ispirandosi anche solo lontanamente a quello a stelle e strisce, ecco che parte la solita cantilena: "noi queste cose non le sappiamo fare, lasciamole agli americani". E tutto rimane fermo. E i film che meritano non se li caga nessuno, tutti troppo impegnati a sciropparsi l'ultimo "Natale chissà dove" dei Vanzina.
Il cinema italiano era dato così per morto che già si pensava all'epitaffio.
E invece poi escono film come Lo chiamavano Jeeg Robot, che fanno quello che faceva il cinema di genere di un tempo, per esempio il cinema di Monicelli, per citare qualcuno: raccontare i tempi che viviamo attraverso il filtro del "genere".
I migliori film di genere rispettano sempre il genere a cui appartengono, ma allo stesso tempo non si fanno fagocitare. Il film di Mainetti è così, non abbandona niente o quasi niente del genere supereroistico. Ci sono le solite fasi tipiche del genere (l'acquisizione dei poteri, la fase di smarrimento, l'accettazione, la rinascita e infine lo scontro finale contro il supercattivo), i personaggi archetipici (l'eroe suo malgrado, il cattivo che vuole fare il botto, la ragazza innocente che apre gli occhi al protagonista), le citazioni pop, epicità e azione. Il tutto però non è un scopiazzamento di un cinema che non ci appartiene. Tutto è profondamente italiano.
È profondamente italiano nel modo di approcciare gli effetti speciali, pochi e mirati per esigenze di budget e belli proprio perché figli dell'arte dell'arrangiarsi (ogni tanto, citando ancora una volta Boris, c'è bisogno di cose fatte alla "cazzo di cane"); è profondamente italiano nei riferimenti pop, da Anna Oxa agli anime giapponesi, che in Italia hanno avuto un successo immenso; è profondamente italiano in questa versione imbruttita di Roma, con tanto di bombe e la paura brigatista ma anche odierna del terrorismo; è profondamente italiano nel modo di fondere supereroi e gangster movie alla Gomorra (serie tv stupenda che dovete vedere).
Ed è profondamente italiano, prima di tutto, perché questa storia, raccontata in questo modo, sarebbe stata possibile solo in Italia, e in particolare a Roma, in quella precisa frazione di Roma (Tor Bella Monaca). Fosse stata ambientata a Napoli, a Milano o a Sassari sarebbe stata una storia diversa. I personaggi parlano un "romanaccio" credibilissimo (cosa che a molti ha dato fastidio, abituati come sono all'italiano neutro del doppiaggio dei film americani), e hanno sogni, paure e traumi che hanno senso enorme in questo contesto.
C'è il ladruncolo da quattro soldi che ha costruito attorno a lui una corazza, fa affaruccoli con la criminalità di Roma e ottiene i poteri buttandosi nel Tevere, che se lo vai a chiedere a un romano random ti dirà che se ti butti nel Tevere come minimo riemergi con tre braccia e sette occhi. C'è il boss criminale "dei poveri", che ha tentato di spaccare partecipando a Buona Domenica, ha fallito, e ora vuole uscire dalla merda in cui vive sognando di diventare un boss mafioso da Gomorra. Ed è lui stesso a dirlo: "io qui nun ce vojo morì, vojo fa er botto". C'è la ragazza che non è la solita bellona/trofeo del protagonista, ma una povera malata di mente che è stata seviziata in mille modi e ora è prigioniera di un cartone animato di quando era piccola, lo stesso cartone animato che dà il titolo al film e che è stato la passione di tantissimi ex bambini ora 40enni. E ci sono anche i camorristi imbruttiti e credibili, i passanti con il naso incollato allo smartphone, i poliziotti imbranati, i criminali di basso rango ignoranti e razzisti.
Questi personaggi hanno senso di esistere solamente all'interno della realtà italiana, che qui viene mostrata e non schiacciata dalla cartolina di una Italia che non esiste. Ed è in qualche modo ironico che a dare un quadro realistico e credibile dell'Italia in cui viviamo sia un film dove ci sono i superpoteri, un film che ha da insegnare agli americani proprio per il suo modo di essere così vero e autentico. Nei film d'oltreoceano tutto è patinato, perfetto e ingessato tra palazzoni e miliardari dalla battuta pronta. Nel film di Mainetti ogni cosa è genuina e ha i 20 kg di troppo di un Claudio Santamaria taciturno e nutrito a porno e yogurt.
I tre punti critici del cinema italiano, quelli che ho elencato a inizio articolo, vengono fatti a pezzi dai pugni "ignoranti" di Enzo Ceccotti, il protagonista del film. Un film in buona parte autoprodotto, di un regista con una visione personale e lucida, lontano dalle solite manfrine sotto banco e ancorato saldamente alla realtà.
Che il cinema italiano abbia davvero bisogno di superpoteri per uscire dal baratro?
Forse, o forse no. Jeeg Robot non è l'unico bel film italiano uscito di recente. Da Il racconto dei racconti di Garrone a Veloce come il vento, da Non essere cattivo a Suburra, le cose iniziano finalmente a smuoversi. Si inizia a raccontare chi siamo veramente o cosa siamo stati e vorremmo essere, e l'Italia non è più una cartolina sbiadita di cui vergognarsi, ma un paese dove le storie possono ancora funzionare e sono più belle quando parlano in dialetto, vivono la crisi e vogliono "fa er botto".